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La terrestrità di Eva Gortan Lafitte

Carlo Sgorlon (Cassacco, 1930 - Udine, 2009) lo indica nella dedica, posta sulla pagina dopo il frontespizio: il romanzo è un libro sulla terrestrità. Qualcosa di più e di diverso da quello che il dizionario assegna al termine risalente al XIV secolo, nelle varie definizioni fornite [TDM 2000, SB 2000, p. 956], o della variante terrestiale come alternativa a celestiale ed infernale. [GB e GA 1968, SB 2000, p. 955]

Essa viene spiegata attraverso le convinzioni e gli atteggiamenti della protagonista Eva Gortan Lafitte, che da bambina si era resa conto come «Il bosco notturno aveva svegliato in lei la coscienza oscura di essere figlia della terra, dell'acqua, dell'aria, del sole, e di essere immersa nel ventre caldo e ombroso della vita». [CS 1990, p. 38]

Più avanti negli anni si era convinta che questa terrestrità - «sentimento di appartenenza alla natura e all'essere» [CS 1990, p. 57] - si esplicasse nella passione per la pittura, ne fece la sua professione. [CS 1990, p. 76]

«La vita era un fiume che non restava mai in secca, e seguitava a scorrere in eterno. [Eva] Sentì, profondissimo, il senso della continuità dell'esistenza, del suo inarrestabile fluire attraverso tutti i deserti di pietre o di sabbia. La vita vinceva sempre. L'erba spuntava anche dall'asfalto delle strade. le radici degli alberi facevano saltare le piastrelle delle case abbandonate, il cemento si copriva di muffa verde, e lei era come la vita, perchè era satura di terrestrità e di impeto vitale.» [CS 1990, p. 66]

Matteo

Fonte dell'immagine a sinistra: Matteo Pasqualin, per il Laboratorio di fotografia "Terzo paesaggio", Liceo Giorgione, Castelfranco Veneto, a. s. 2015-6, docente: prof. Valentina Meli

Fonte dell'immagine a destra: Sul paramento murario esposto a nord, a circa un metro di altezza, la piantina di poco più di una decina di centimetri fuoriesce da una crepa nell'intonaco grezzo, che ha fatto da "vaso" per la crescita

«Sviluppavano progetti sempre più scriteriati, come quello di conquistare pianeti morti, o di costruire città artificiali nello spazio, e ogni nuovo progetto si risolveva in distruzione di bosco, di prato, di terreno, che non sarebbero stati recuperati mai più. Una volta distrutto l'humus con una massicciata, uno strato di di calcestruzzo, un manto di asfalto, esso era rovinato per sempre. Demolivano una collina per ricavarne cemento, ed esso poi serviva per seppellire altro terreno fertile e per costruire un'altra casa a chi non aveva il tempo di abitarla. Nessuno riusciva a vedere che queste cose non erano sviluppo e non erano progresso, ma i cadaveri viventi di essi, tenuti in vita in quel reparto di terapia intensiva che era diventata la civiltà. Gli uomini non si accorgevano di tutto questo perchè avevao perso la misura di creature della terra e il sentimento istintivo della loro appartenenza ad essa.» [CS 1990, p. 191]

«Anche l'erba rispuntava attraverso il manto di asfalto con cui gli uomini distruggevano l'humus e i campi fertili, per offrire altre strade al traffico.» [CS 1990, p. 218]

Secondo Andrea Castelli «critico famoso, che scriveva su un grande giornale» [CS 1990, p. 154] «La sua pittura, epica e narrativa, legata alle radici più profonde ed enigmatiche della vita, pareva l'essenza di una terrestrità recuperata» [CS 1990, p. 170], e in tal senso la predilezione per Chagall stava nel ritenerlo «un amico della terra, un pittore della terrestrità e del rapporto magico con la natura.» [CS 1990, p. 213]

Fonte dell'immagine: Marc Chagall, La passeggiata, 1917-8, olio su tela, 170 x 163,2 cm, San Pietroburgo, Museo di Stato Russo

«Nello studio [Eva] era sempre sovrastata dal calendario con i quadri di Chagall, per lei un maestro da cui emanava qualcosa d'indefinibile, simile alle pitture magiche che facevano gli artisti della preistoria, con erbe colorate, sulle pietre lisce delle grotte, per propiziare la caccia al cervo o al bisonte.» [CS 1990, p. 71]

«I suoi quadri erano un po' dapperttutto, appoggiati ai muri, appesi ai chiodi o allineati dentro grandi contenitori di legno. Accanto al cavalletto, sul muro di fronte, v'era un calendaro a colori con riproduzioni di Chagall. Nella pause del lavoro le piaceva tornare a guardare una mucca rossa dentro una stalla verdolina, mentre sulla neve, di fuori, un violinista suonava il suo strumento.» [CS 1990, p. 24] Il suonatore di violino, figura mitica e amatissima, è un soggetto che ha interessato oltre modo il pittore, meritano un cenno le due opere: • Il violinista [zio Neuch], 1912-3, olio su tela, 188 x 158 cm, Amsterdam, Stedelijk Museum, • Il violinista verde, 1923, olio su tela, 78 x 42 cm, New York Guggenheim Museum. Chagall compare nella storia narrata, ma Sgorlon avverte, in una nota alla fine del romanzo, che ciò «non ha altro significato se non che per me egli è un po' simbolo di una certa concezione dell'arte e della vita medesima» [CS 1990, p. 247]. Il pittore russo è in Italia nel 1937, forse nel 1948, di nuovo nel 1951, ancora nel 1953 e nell'anno successivo, infine nel 1977 e nel 1978. Nel 10937 visita la Toscana, nel 1948 alla Biennale di Venezia c'è una sala per le sue opere nel padiglione francese, nel 1951 è a Roma, Napoli e Capri, nel 1953 a Torino per l'inaugurazione di una sua retrospettiva a Palazzo Madama, nel 1954 soggiorna a Ravenna, Firenze e Venezia, dove torna a contemplare le opere di Tiziano e Tintoretto. Infine nel 1977 viaggia in Italia e nel giugno 1978 è a Firenze per assistere all'apertura di una mostra di sue opere a Plazzo Pitti. [FLT 1986]

Alla terrestrità di Eva, la trama contrappone lo sviluppo incontrollabile negli esiti, come lo smaltimento dei rifiuti tossici e nocivi, in «bidoncini» e «bidoni», che «co tempo venivano forati dalla ruggine e le sostanze, per effetto delle piogge e di acque sotterranee, si impastavano col terreno e finivano nei prodotti dei campi.»[CS 1990, p. 148] «Era lo sviluppo che avanzava, ma ormai non in modi sani e allegri, bensì tortuosi e sovvertiti. Non sapeva più come disfarsi dei veleni che produceva, e allora li nascondeva nel seno della natura, come certi animali occultano i propri escrementi.» [CS 1990, p. 149]. Portando Eva a concludere «che lo sviluppo era finito, e anzi bisognava fermarlo perchè più aumentava più danni produceva» [CS 1990, p. 151]

Fonte dell'immagine: Aldo Di Gennaro, illustrazione per la sovraccoperta del romanzo di Carlo Sgorlon La fontana di Lorena . Per inquadrare l'opera nella produzione di Sgorlon, si veda il fondamentale contributo dato dall'Autore stesso in tarda età [CS 2008, p. 146 e seguenti]

L'inizio degli anni Novanta riserva una serie di segnali e di fatti concreti sul fronte dell'attenzione all'ecologia e all'ambiente, si pensi che in Italia il partito dei Verdi fece la sua comparsa nel 1985. Niente rispetto a quello che abbiamo visto nei seguenti due decenni. Non si è fermato il consumo di suolo, nelle città l'aria è irrespirabile, il suolo nasconde inquinanti, alcuni dei mari del Mediterraneo sono in pericolo.

Con cognizione di causa «accanto alla ripresa dei temi arcaici e mitici del suo mondo poetico, Sgorlon introduce, come estremo esorcismo nei confronti di un'attualità tragicamente distruttiva, il motivo ecologico della sopravvivenza di una terra antica e immutabile, il suo Friuli proposto come ultimo confine di un mondo ormai contaminato» [GL 1992, p. VII]

Non si vuole capire che il tempo è scaduto. Quando la terra non è più uno dei quattro elementi (con l'acqua, l'aria, il fuoco, essenziali alla vita e al continuum della materia naturale), ma è la somma degli stessi. Il quadrato, inteso come valore esponenziale, la potenza della terra stessa, che attiene al pianeta - globalmente inteso - con l'estensione all'energia solare, piuttosto che al materiale terra (contenuto nell'aria o nell'acqua). Sgorlon fa ripetere al missionario tornato dal Brasile un detto degli indios dell'Amazzonia, secondo il quale «la foresta apparterebbe sempre a quattro fratelli, l'acqua, la terra, l'albero e la nuvola, e mai all'uomo» diversamente diventerebbe «terra indurita come il coccio dei boccali» [CS 1990, p. 191]

Non è certo casuale che la protagonista abbia il nome della nonna materna dell'Autore. Nata a Tarcento «salute di ferro e carattere d'acciaio» [CS 2008, p. 17] levatrice comunale «la grande matriarca aveva aiutato a venire al mondo tremila bambini» [CS 2008, p. 97], correndo di giorno e di notte per un'area molto vasta «arrivava fino ai casali solitari costruiti al limite del comune, tra le torbiere e le paludi di Bueris e le ricche campagne di Vendoglio» [CS 2008, p. 17], un territorio di oltre dieci chilometri di diametro. Era la moglie di Pietro, che aveva iniziato il giovanissimo Carlo alla letteratura e all'arte [CS 2008, p. 54].

 

[CS 1990] Carlo Sgorlon, La fontana di Lorena, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1990

[CS 2008] Carlo Sgorlon, La penna d'oro, Morganti Editori, 2008, in particolare i capitoli 12 e 14

[GB e GA 1968] Carlo Battisti e Giovanni Alessio, Dizionario etimologico italiano, G. Barbèra Editore, Firenze 1968, vol. V, p. 3766

[FLT 1986] François Le Targat, Marc Chagall, Rizzoli, Milano 1986

[GL 1992] Giorgio Luti, «Introduzione [a Regina di Saba]» in Carlo Sgorlon, Regina di Saba, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1992, p. V - XIII

[TDM 2000] Tullio De Mauro, Grande dizionario italiano dell'uso, UTET, Torino 2000, vol. VI, p. 638. Termine di solo uso letterario, cioè "l'essere terrestre, l'appartenere alla terra"

[SB 2000] Salvatore Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana, UTET, Torino 2000, vol. XX. Per primo, "Quantità di terra presente in maggiore o minore misura in un corpo (in part. secondo la dottrina antica e medievale dei quattro elementi)", poi "Carattere materico di un'opera d'arte", quindi "Carattere terreno, mondano e materiale di una condizione, di una manifestazione o di un comportamento (in part. in contapposizione a ciò che è trascendente e divino)"

ultima modifica 21 febbraio 2017

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