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Vitaliano Trevisan: il giardino sul retro

  • di Massimo Pasqualin
  • 1 gen 2016
  • Tempo di lettura: 2 min

«Semmai sono un esule, pensai alzandomi. Col giornale in mano mi avvicinai alla finestra del mio studio e guardai fuori. Ma quel giardino sul retro che, da quando mi ero stabilito in quella casa, e dunque da circa dieci anni, avevo lasciato incolto, nel quale avevo accuratamente evitato di mettere piede, e la cui vista non mancava mai di avere su di me un effetto calmante, ebbene ora, al contrario, mi inquietava. Quelle felci che avevo lasciato crescere indisturbate, e ormai, semplicemente aprendo la finestra e sporgendomi appena un poco, avrei potuto toccare; quel rododendro che, riproducendosi in modo incontrollato, si era appropriato di ogni spazio utile soffocando tutto il resto; quella quercia maestosa, i cui rami, grossi come un corpo umano, si stendevano in orizzontale, cercando di sottrarsi all’abbraccio mortale della vite americana, che ormai li ricopriva quasi interamente. Improvvisamente, mi venne l’idea di correre nel capanno degli attrezzi, prendere motosega e decespugliatore, e tagliare tutto. Tagliare tutto, dissi ad alta voce guardando dalla finestra. Tagliare tutto subito, ripetei, sempre ad alta voce, ma già prima di sentirmi finire la frase, mi resi conto che avrei dovuto aspettare la mattina seguente. Per un lavoro del genere, pensavo guardando dalla finestra, ci vuole almeno un giorno, forse addirittura due giorni. Cominciare subito non ha nessun senso, pensai rendendomi conto che era già sera. Alla finestra dello studio di Hennetmair, che intravedevo tra i rami della quercia, la luce era accesa.» (p. 63-4)

«Chiamarsi fuori è un’idea assurda, pensai guardando fuori dalla finestra, almeno quanto quest’improvvisa idea di tagliare tutto. Questo giardino mi è sempre piaciuto così, proprio perchè è così diverso da quel giardino della mia infanzia, in cui mia madre mi costringeva a passare gran parte delle mie giornate, anzichè lasciarmi uscire, ccome avrei voluto, per andare a giocare in strada.» (p. 67-8)

«Ogni volta che penso a una famiglia, penso a una trappola: una famiglia una trappola. La mia aveva l’aspetto di un giardino ben curato. Se non me ne fossi andato, pensai, avrei finito davvero per trasformarmi in quella pianta grassa on cui, in un sogno ricorrente., mi trasformavo, dopo essere stato abbandonato in giardino e, incapace di muovermi e di parlare, lentamente, con orrore, mi rendevo conto di mettere radici, mentre su tutto il corpo, mi crescevano da dentro delle spine, che si facevano strada bucandomi la pelle.» (p. 122)

«Aspettarsi dei frutti è un’assurdità, pensavo, un buon giardiniere l’avrebbe già tolta di mezzo da un pezzo, ma io sono tutto fuorché un giardiniere. Ho sempre avuto un debole per i fiori di campo piuttosto, le erbe selvatiche e tutto ciò che mette radici spontaneamente, magari dove non dovrebbe.» (p. 144)

«Che sia in treno o che sia in macchina, in moto oppure a piedi, il paesaggio mi penetra.» (p. 149)

«[…] tutto, ora, mi sembra unito, come se non si uscisse mai dalla città, o meglio, come se si continuasse, ininterrottamente, a uscire dalla città, senza uscirne mai del tutto, e mentre all’esterno tutto sembra unirsi, all’interno tutto sembra frammentarsi.» (p. 150)

• Vitaliano Trevisan, Il ponte. un crollo, 2007, Giulio Einaudi editore, Torino

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