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D'Annunzio a Stra

La Foscarina e Stelio Èffrena nella campagna fluviàtile verso villa Pisani

«Le ruote scorrevano scorrevano, nella strada bianca, lungo gli argini della Brenta. Il fiume, magnifico e glorioso nei sonetti degli abati cicisbei quando per la sua corrente scendevano i burchielli pieni di musiche e di piaceri, aveva ora l’aspetto umile d’un canale ove sguazzavano le anitre verdazzurre in frotte. Per la pianura bassa e irrigua i campi fumigavano, le piante si spogliavano, il fogliame marciva nell’umidità delle zolle. Il lento vapor d’oro fluttuava su una immensa decomposizione vegetale che sembrava toccare anche le pietre le mura le case e disfarle come le frondi.

Matteo Pasqualin, saggio di modellazione digitale, 2016

Dalla Foscara alla Barbariga le ville patrizie – ove la vita dalle vene pallide, avvelenata delicatamente dai belletti e dagli odori, s’era spenta in languidi giochi sopra un neo, intorno a un cagnolino o dietro a un bombè – si disgregavano nell’abbandono e nel silenzio. Talune avevano l’aspetto della ruina umana, con le loro aperture vacue che somigliavano alle orbite cieche, alle bocche senza denti. Altre al primo vederle parevano sul punto di ridursi in frantimi e in polvere come le capellature delle defunte quando si scoperchiano le tombe, come le vecchie vesti ròse dai tarli quando si aprono gli armadi da lungo tempo chiusi. I muri di cinta erano abbattuti, rotti i pilastri, contorti i cancelli, invasi dalle ortaglie i giardini. Ma qua, là, da presso, da lungi, ovunque, nei frutteti, nelle vigne, tra i cavoli argentati, tra i legumi, in mezzo ai pascoli, su i cumuli di concime e di vinaccia, sotto i pagliai, alla soglia dei tugurii, ovunque per la campagna fluviàtile s’alzavano le statue superstiti. Erano innumerevoli, erano un popolo disperso, ancòra bianche, o grige, o gialle di licheni, o verdastre di muschi, o maculate, e in tutte le attitudini e con tutti i gesti, Iddie, Eroi, Ninfe, Stagioni, Ore, con gli archi, con le saette, con le ghirlande, con le cornucopie, con le faci, con tutti gli emblemi della potenza, della ricchezza e della voluttà, esuli dalle fontane dalle grotte dai labirinti dalle pergole dai portici, amiche del busso e del mirto sempreverdi, protettrici degli amori fuggitivi, testimoni dei giuramenti eterni, figure di un sogno ben più antico delle mani che le avevano formate e degli occhi che le avevano mirate nei giardini distrutti. E nel dolce sole di quella tardiva estate dei morti le loro ombre, che s’allungavano a poco a poco su la campagna, erano come ombre del Passato irrevocabile, di ciò che non ama più, che non ride più, che non piange più, che non rivivrà più mai, che non ritornerà più mai. E la muta parola su le loro labbra di pietra era quella medesima che diceva l’immobile sorriso che le labbra della donna consunta: – NIENTE.» (p. 162 -3)

A Dolo vedono la Barbariga

«Al Dolo le ruote fecero cricchiare le foglie dei castagni che ricoprivano la via; e i grandi alberi trascolorati fiammeggiarono sul loro capo come cortinaggi di porpora che s’incendiassero. Più lungi, la Villa Barbariga apparve sola e desolata in mezzo al suo giardino nudo, rossastra, con le tracce delle antiche pitture su gli screpoli della facciata come resti di cinabro nelle rughe di una vecchia galante. E le lontananze della campagna a ogni sguardo più s’attenuavano e s’inazzurravano come le cose che si sommergono.

– Ecco Strà.

Discesero dinanzi alla villa dei Pisani; entrarono; accompagnati dal custode, visitarono gli appartamenti deserti. Udirono il suono dei loro passi sul marmo che li rispecchiava, l’eco nelle volte istoriate, il gemito delle porte che s’aprivano e si richiudevano, la voce tediosa che risvegliava le memorie. Le stanze erano vaste, parate di stoffe svanite, ornate nello stile dell’Impero, con gli emblemi napoleonici. In una le pareti erano coperte dai ritratti dei Pisani procuratori di San Marco; in un’altra, dai medaglioni marmorei di tutti i Dogi; in un'altra da una serie di fiori dipinti ad acquerello e posti in delicate cornici, pallidi come quei fiori dissecati che si pongono sotto i vetri per ricordo di un amore o di una morte.» (p. 163)

Poi la Foscarina fugge fuori, mancava l’aria, attraversò «la sala immensa istoriata dal Tiepolo, mentre dietro di lei il bronzo corintio del cancello nel chiudersi dava un suono chiaro come un tintinnio che propagavasi per la concavità in lunghe vibrazioni.» (p. 165) e con Stelio Èffrena raggiunge «il parco ove il sole obliquo alternava le sue bande fulve con le zone glauche dell’ombra» (p. 165), «lungi dall’odore tetro» (p. 166).

• Gabriele D’Annunzio, Il fuoco (1898), 1995, Biblioteca Economica Newton, Roma (a cura di G. Oliva)

• immagini della galleria: Matteo Pasqualin, 27 aprile 2010

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