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il centro commerciale di Zola


Quando il caso ti porta a scoprire un romanzo dell'Ottocento: l'epopea dei grandi magazzini a Parigi. E capisci da dove tutto ha avuto inizio. E guardi i centri commerciali con occhi diversi. Poi arriva anche la fiction in RAI, ma ambientata nella Milano degli anni ’50, prima ancora su RAI3 un americano a Londra alle prese con lo store.

Non ho seguito le sorti delle due iniziative sul piccolo schermo. Questa l'edizione del romanzo che ho letto: Émile Zola, Al Paradiso delle Signore, [1883] 1994, Newton Compton, Roma, (tit. orig. Au Bonheur der Dames, trad. Fernando Martini, introd. Mario Lunetta), da cui riporto alcuni brani, i neretti sono miei.

«[…] Il Paradiso delle Signore era stato fondato nel 1822 dai fratelli Deleuze.» (Capitolo primo, p. 28)

Al tempo dei fatti narrati era di proprietà di Octave Mouret.

«“Un sognatore, uno scombinato pericoloso che butterà all’aria il quartiere, se lo lasciano fare”, seguitò Baudu [titolare di un piccolo emporio lungo una delle vie che delimitano l’isolato dove sorge il grande magazzino e zio di Denise, ventenne commessa di provincia arrivata a Parigi, protagonista del romanzo].» (p. 29)

Siamo in un ambito urbano interessato dai grandi lavori dell'epoca sulla viabilità urbana in centro a Parigi (ora 2° arrondissement): l'opera di pianificazione del prefetto Georges Eugène Haussmann (1809 - 1891), urbanista e deus ex machina dell'imponente riqualificazione della capitale.

«Tutto il quartiere non faceva intanto che discorrere della grande strada che doveva essere aperta tra la Borsa e il nuovo teatro dell'Opera, col nome di rue du Dix-Décembre [ora rue du Quatre-Septembre]. I decreti di espropriazione erano già pronunciati e due schiere di demolitori buttavano giù da un capo e dall'altro, l'una i vecchi palazzi di rue Louis-Le-Grand, l'altra i muri leggeri del vecchio Vaudeville; […] Ma più ancora il quartiere era commosso dai lavori che si facevano nel Paradiso delle Signore. Correva la voce di nuovi ingrandimenti, di giganteschi magazzini che avrebbero prese le tre facciate di rue de la Michodière, rue Neuve-Saint-Augustin [ora Rue Daunou] e rue Monsigny. Mouret, dicevano, aveva trattato col barone Hartmann, presidente del Credito fondiario e doveva occupare tutto l'insieme delle case, salvo la futura facciata in rue du Dix-Décembre dove il barone voleva costruire un albergo che facesse concorrenza al Gran-Hôtel.» (Capitolo ottavo, p. 135)

Si costruisce (ora lo definiremo un intervento di riqualificazione urbanistica e di ristrutturazione edilizia): la via citata corrisponde all'attuale Rue Daunou, vicino alla place de l'Opéra:

«Per quanto l'ingegnere si servisse dei fabbricati che già c'erano, li rompeva da tutte le parti per ridurli a suo modo; e nel mezzo, dov'erano i cortili, costruiva una galleria centrale, vasta come una chiesa, che doveva sboccare nel centro della facciata in rue Neuve-Saint-Augustin, per un grande atrio. […] I muri si alzavano ora al primo piano; le impalcature giravano attorno a tutto l'isolato: si sentiva di continuo lo scricchiolio delle macchine che tiravano su le pietre, il colpo improvviso delle stanghe di ferro, il frastuono di quel popolo di operai accompagnato dal rumore dei picconi e dei martelli.» (Capitolo ottavo, p. 140)

«L'ingegnere, che era per caso un uomo intelligente, un giovanotto innamorato dei tempi nuovi, non s'era servito delle pietre che per i sotterranei e i piloni degli angoli; tutto il resto dell'ossatura era di ferro, a colonne che sorreggevano le travi e i travicelli. Le volte dei soffitti e le divisioni interne erano a mattoni. Dappertutto aveva così guadagnato posto; l'aria e la luce entravano liberamente, il pubblico poteva passeggiare con tutto il suo comodo per alte e lunghe gallerie.» (Capitolo nono, p. 149)

«Poi giunta alla grande galleria, alzò gli occhi. Pareva una tettoia di stazione, circondata dai ballatoi dei due piani, rotta da scale, attraversata da ponti volanti. Le scale di ferro, a doppio giro, si alzavano in ardite curve con infiniti ripiani; i ponti di ferro anch'essi sospesi nel vuoto si lanciavano dritti dall'alto; e tutto quel ferro sotto la luce bianca dei vetri si componeva in una leggera architettura, in una trina complicata attraverso la quale passava la luce del giorno. Era la moderna realtà di un palazzo visto in sogno, d'una Babele sorgente di piano in piano e allungantesi nelle sale con altri piani sopra ed altre sale attorno fino all'infinito. del resto, il ferro regnava dappertutto; l'ingegnere aveva avuto l'onesto coraggio di non nasconderlo sotto un intonaco che imitasse la pietra o il legno. Giù, in basso per non nuocere alle merci, gli ornamenti erano sobri, a grandi tratti uniti, color grigio: poi a mano a mano che la costruzione metallica saliva, i capitelli delle colonne si facevano più ricchi, le ribaditure formavano rosoni, le modanature e le cornici erano cariche di statuine. Finalmente, in cima splendevano i colori, il verde e il rosso, tra l'oro messo dappertutto, a strisce, a strati, fino ai cristalli che erano anch'essi pieni di ornamenti d'oro. Sotto le gallerie coperte, i mattoni delle volte erano tinti ugualmente a colori vivi. Mosaici e porcellane facevano parte degli ornamenti, rallegrando i cornicioni, e togliendo un po' di severità all'insieme; e le scale, guarnite di velluto rosso, avevano le ringhiere lucide come l'acciaio d'un'armatura. » (Capitolo nono, p. 157)

Chiari i riferimenti al grande magazzino Le Bon Marché, ma anche all'ingegnere del momento Gustave Eiffel (1832 - 1923), che come consulente per le strutture collaborò almeno dal 1870 (è del 1876 l'intervento per la copertura).

Octave Mouret seduttore di grande successo, creativo uomo d'azione, è il direttore del grande magazzino Au Bonheur des Dames. Lo seguiamo durante un sopralluogo nel vicino cantiere:

«[…] saliva sulle scale, discuteva con l’ingegnere gli ornamenti che dovevano essere originali, scavalcava ferri e mattoni, scendeva perfino nei fondamenti; e il frastuono della macchina a vapore, lo strepitio delle gru, il rumore dei martelli, le grida di quel popolo d’operai, in quella grande gabbia circondata da impalcature che risonavano, riusciva per un po’ a stordirlo [e dimenticare i crucci sentimentali procurati da Denise]. Ne usciva bianco di polvere, nero di limatura di ferro, coi piedi infangati dalle cannelle d’acqua che gli schizzavano addosso: […]» (Capitolo dodicesimo, p. 212)

L’ambiente di lavoro è magistralmente descritto. Il cantiere come “antidolorifico magnifico” con il lessico di Jovanotti.

«[…] per l’appunto, era tornato di buon umore per una distrazione avuta; e stava tutt’attento a guardare un album di disegni di mosaici e terre cotte smaltate che dovevano decorare il cornicione, […]» (p. 212)

• immagine in alto:

James Tissot (1836 - 1902), The Shop Girl, 1883 - 1885, tecnica: olio, materiale: tela, dimensioni: 101,6 x 146,1 cm, Art Gallery of Ontario, Toronto, Canada [da: Paul Ripley, James Jacques Joseph Tissot - French artist, in Art Renewal Center Museum, www.artrenewal.org, per il quadro, cfr. pages 9, URL consultati il 18 gennaio 2016]

• immagine sotto:

Galeries Lafayette a Parigi, il primo agosto 2016, nel pomeriggio, la sede all'incrocio tra Rue de la Chaussée d'Antin e Boulevard Haussmann (foto M. Pasqualin)

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